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Great Lakes Wind
Debutta una nuova rubrica per gli amici di Touchdown Magazine, soprattutto quelli che hanno cuore le sorti della NFC North.
Debutta una nuova rubrica per gli amici di Touchdown Magazine, soprattutto quelli che hanno cuore le sorti della NFC North e dei quattro teams della regione dei Grandi Laghi: Chicago Bears, Detroit Lions, Green Bay Packers e Minnesota Vikings.
I Great Lakes of North America, i Grandi Laghi americani, cinque bacini d’acqua immensi, battuti da venti gelati e impietosi, che identificano intimamente luoghi sulle loro sponde come nel caso della Windy City, Chicago, sono simbolo di paesaggi selvaggi, di climi estremi, di epica sconfinatezza. Qualcuno ne ricorderà ancora i nomi distrattamente letti sul libro di geografia delle scuole medie: Michigan, Huron, Erie, Superior, Ontario. Se lo stato del Michigan è quello che più di ogni altro è associato ai Great Lakes, con la sua caratteristica forma di mano (più l’Upper Peninsula) disegnata in mezzo a quattro dei cinque laghi, anche l’Illinois, il Wisconsin ed il Minnesota, stati di casa rispettivamente per Detroit Lions, Chicago Bears, Green Bay Packers e Minnesota Vikings, si affacciano su almeno uno di essi (oltre a Indiana, Ohio, Pennsylvania, New York e alla provincia canadese dell’Ontario).
Per questo, Great Lakes Wind, il Vento dei Grandi Laghi, vuole essere un nuovo appuntamento, per tifosi delle franchigie della NFC North e non solo, nel quale riportarvi il vento delle principali notizie riguardanti la soprannominata “Black and Blue Division”. Nella speranza che questo possa diventare un nuovo appuntamento regolare, concluse le dovute introduzioni (anche geografiche) del caso, è il momento di partire per il Midwest e scoprire cosa si dice a Chicago, Detroit, Green Bay e Minneapolis-Saint Paul dopo la prima giornata della regular season 2020 dell’NFL.
La nuova stagione ha offerto subito il doppio confronto divisionale fra i Vikings ed i Packers in quel di Minneapolis e fra i Lions ed i Bears a Detroit. Entrambe le gare hanno visto vincenti le squadre ospiti, con i Packers impostisi 43-34 sui Vikings ed i Bears autori di un’improbabile rimonta che li ha portati a superare i Lions per 27-23.
Chicago Bears
Andando in ordine alfabetico, partiamo proprio da Chicago. Gli Orsi dell’Illinois sono usciti dal Ford Field senza avere risolto i principali dubbi che li avevano accompagnati durante la preseason. Dopo tre quarti mediocri dell’intera compagine “navy and orange”, nell’ultimo periodo Mitchell Trubisky si è letteralmente trasformato, trascinando l’attacco con 3 passaggi da TD che hanno ribaltato un deficit di 17 punti. I dolori del giovane (ma ormai già al quarto anno da pro) Mitch, sembrano quasi riproporre il dilemma Good Rex/Bad Rex dell’epoca di Rex Grossman (in parte applicabile anche a Jay Cutler…), sicché il gioco offensivo dei Bears può passare in un amen dall’essere asfittico ai fuochi d’artificio (perlomeno contro i Lions). Coach Nagy ha dimostrato di volere proporre uno schema più equilibrato di quanto visto nel 2019, in cui il gioco di corsa ritorni ad essere una parte centrale del game plan. In una marcata revisione della propria filosofia offensiva, certamente discussa da Nagy con il suo rinnovato staff, rientra anche il limitato ricorso alla shotgun formation, chiamata solo nel 49% degli snap giocati contro i Lions, rispetto al 76% (di media a partita) del 2019. Trubisky si è mostrato a suo agio “under center” ma anche la linea offensiva, apparsa più aggressiva ed efficiente sia nel gioco aereo che terrestre, ne ha probabilmente beneficiato.
Purtroppo, a Chicago l’atmosfera, di sollievo per il pericolo scampato a Detroit, è stata resa improvvisamente pesante dalle uscite pubbliche del miglior ricevitore a roster, ossia Allen Robinson. Esasperato dalla mancanza di un nuovo contratto e andando in scadenza nel prossimo marzo, l’ex Penn State ha creato un caso nel cuore della settimana che però richiederà ancora del tempo al General Manager Ryan Pace prima che possa essere risolto. La situazione del salary cap dei Bears per quest’anno e il 2021 (e forse anche 2022) limita alquanto i margini d’azione. I Bears faranno il possibile perché ARob rimanga a Chicago a lungo, ma il front office dovrà considerare attentamente le implicazioni sul mantenimento di un roster competitivo nel suo complesso.
Detroit Lions
A Detroit, tanto per cambiare, prevale il disappunto per l’ennesima delusione patita dei Lions ad opera dei Bears. Diventa via via più difficile scoprire quale sia il sortilegio che affligge una squadra che pare spesso sul punto di fare un salto di qualità e puntualmente incappa negli stessi errori di sempre, quasi che sulla città aleggiasse una nuvoletta fantozziana da cui non ci si riesce proprio a liberare (discorsi analoghi si potrebbero fare per Cleveland, altra città sulle sponde di un grande lago…forse è l’aria della parte orientale dei Great Lakes, visto che anche a Buffalo si soffre da anni, per quanto il futuro paia ora finalmente roseo). A parziale scusante della sconfitta non si possono ignorare le pesanti assenze di Kenny Golladay (che salterà anche la seconda giornata) e Jeff Okudah, ossia il loro ricevitore di punta e il loro cornerback nuovo di zecca, terza scelta assoluta da Ohio State al draft dello scorso aprile. Non proprio due defezioni da poco, insomma. Peraltro, Matt Patricia sta esaurendo i petali della margherita degli alibi che ormai sfoglia da più di due anni e la ruggine mostrata da Matthew Stafford al rientro dopo il brutto infortunio alla schiena del novembre 2019 non ha aiutato. In particolare, la statistica che più salta all’occhio passando in rassegna i risultati delle ultime 17 partite (l’intera stagione 2019 più il season opener contro Chicago) dice che per ben 12 volte i Lions si sono trovati in vantaggio nell’ultimo quarto, riuscendo però a portare a casa solo una vittoria ed un pareggio, concedendo 10 sconfitte. Certamente, se il rookie running back da Georgia D’Andre Swift non avesse commesso un drop fatale nella end zone dopo il sorpasso dei Bears, a tirare un sospiro di sollievo oggi ci sarebbero i tifosi dei Lions ma così non è ed ora la trasferta di Green Bay non offre certamente l’opportunità più agevole per riscattarsi.
Green Bay Packers
Proseguiamo proprio con Green Bay questo nostro viaggio, che per ora avviene in presenza di gradevoli temperature di fine estate. La tundra non è ancora frozen sulle sponde del lago Michigan che toccano il Wisconsin orientale ma Aaron Rodgers in compenso è già caldissimo. Eh sì, perché un Rodgers così francamente non lo si vedeva da tempo. Accurato, preciso, concentrato, in buonissima forma fisica, chirurgicamente letale soprattutto uscendo dalla tasca in rollout verso destra (probabilmente la situazione in cui il numero 12 è incontestabilmente il miglior QB della lega) come in occasione del primo passaggio da TD catturato da Davante Adams nel primo tempo di Minneapolis. I Vikings poco o niente hanno potuto contro Rodgers, il cui linguaggio del corpo dovrebbe fare preoccupare molto gli avversari. Una prestazione da candidato all’MVP, senza fronzoli, senza occhiatacce agli arbitri elemosinando penalità per diritto divino, senza espressioni di disgusto nei confronti di compagni di squadra colpevoli di non avere il suo stesso talento, senza girare la testa dall’altra parte quando un coach chiede di rivedere insieme un’azione. Insomma, messa da parte la luna che tanto spesso negli ultimi anni aveva limitato i Packers (e, come sostenuto da fonti decisamente credibili, aveva anche condizionato la fine del rapporto tra i gialloverdi e coach Mike McCarthy), Rodgers potrebbe veramente guidare i Packers ad arrivare lontano. Tanti segnali positivi sono anche giunti: dai ricevitori che, a dispetto di qualche errore evidente ma evitabile, hanno per il momento fatto dimenticare le forti critiche rivolte al front office per non avere portato rinforzi significativi durante free agency e draft; dalla linea offensiva, che ha protetto benissimo Rodgers ed aperto corsie per il gioco di corsa molto ben sfruttate da Aaron Jones e dai compagni di reparto; e dalla difesa che, pur lasciando ad intendere che i problemi contro le corse potrebbero rimanere un punto debole su cui lavorare ancora con grande attenzione, ha limitato fortemente i Vikings, se non nel finale quando comunque l’esito della gara era praticamente scritto.
Minnesota Vikings
Minneapolis-Saint Paul, casa dei Vikings, è la destinazione finale del nostro primo viaggio attraverso il Midwest e i Grandi Laghi. L’esordio casalingo contro i Packers non ha però offerto grandi soddisfazioni al team “purple and gold”, apparso in grosse difficoltà in tutte le fasi del gioco. Aldilà del passivo nel risultato, peraltro reso meno pesante di quanto la partita non abbia raccontato nel corso dell’ultimo quarto, le note liete per i Vichinghi sono state poche. Una sorpresa è stata tutto sommato la prestazione solida della offensive line, un’unità che non era stata significativamente migliorata attraverso free agency e draft, a dispetto di non avere espresso un livello di gioco propriamente di élite nel 2019. Due soli sack concessi, di cui uno sfociato in una safety, arrivata tuttavia da un cornerback blitz e su una chiamata rischiosa quale una play action nella propria end zone, e buone corsie aperte per le corse di Dalvin Cook (quando chiamato in causa), certificano una prova incoraggiante.
Per il resto, l’offensive coordinator Gary Kubiak ha compiuto in settimana un’analisi cruda ma onesta delle pene che hanno afflitto l’attacco nel secondo quarto, il periodo che ha permesso ai Packers di determinare chi comandasse in campo. Dopo un inizio promettente, l’attacco è andato in panne, con soli sei down giocati fra il quarto e l’ultimo minuto del secondo quarto, risultati in una safety, seguita da tre giochi per guadagno negativo, un incompleto ed un intercetto. Questo è stato il prologo all’imbarazzante record negativo di tempo di possesso nella storia della franchigia dal 1977 ad oggi: la “bellezza” di 18 minuti e 44 secondi.
Ciò che desta ancora maggiore preoccupazione in Minnesota non può che essere però la prova scialba di una difesa che è sempre stata il marchio di fabbrica di Mike Zimmer: mai, dall’arrivo dell’head coach sulle sidelines nel 2014, gli avversari avevano messo a referto così tanti (43) punti. In casa Vikings non è ancora tempo di disperarsi, ma certamente occorre lavorare tanto, bene ed in tempi rapidi per raddrizzare la barca.
Autore: Federico Aletti
Data di pubblicazione:
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